NOTA CRITICA
Giacinto Ferrero, torinese, classe 1992. Come dire giovanissimo, artisticamente vergine, istintivo, ma di quell'istinto che trascina la personalità dal magma
colorato dell'adolescenza verso le derive definite ma non definitive dell'identità adulta. Gli scenari che si aprono sulle opere presentate in Ucronie raccontano molto di Giacinto, anche quando
ci mettono di fronte alle sue maschere ed alle sue aspirazioni piuttosto che al corpo nudo del suo sé.
E raccontano territori in cui il giovane artista muove passi defilati, entrando in punta di piedi quasi a non voler turbare le forme di vita sporadiche che si
raggruppano attorno alle radure del sottobosco psichedelico, alle rovine della cultura occidentale, a templi ellenici trasfigurati dalla catarsi del rock.
Passi defilati ma decisi, che si appoggiano ad un tratto senza mezze misure e alla scelta della bicromia: assenza di mezzi toni, bianchi assediati da neri
prepotenti, linee dorate a scandire i ritmi di uno stile che è prima di tutto ritmo, cadenza, quattro quarti in battuta incessante. Disegni, schizzi e appunti mentali di viaggi ipotetici che
partono e ritornano nel microcosmo imprevedibile del subconscio. Come nelle litanie eterne dei Tangerine Dream, Giacinto Ferrero decolla e plana su monumenti e valli lisergiche mentre gli occhi
cercano di rubare ogni istante, ogni movimento, ogni piega quadridimensionale delle nuove realtà ipotetiche.
Paesaggi densi di spettri e di idoli, che rielaborano Ganesh nel suo simulacro estetizzato, muri di Marshall su archetipi classici, icone rock e tentazioni
corporali. Fermiamoci un momento davanti a Mente Umana, ad esempio. Fermiamoci senza pregiudizi, senza pensare a nulla, senza confronti. Risaliamo con Giacinto lungo le linee dense e nere che si
deformano in occhi, finestre, tessuti e volti per intuire – alla fine – il profilo della montagna sacra. Giacinto Ferrero esordisce con una nomenclatura che sta assorbendo avidamente un
background culturale, artistico e musicale distante negli anni, certamente lontano da quella che è la sua reale esperienza anagrafica, ed è proprio questa nostalgia di esperienze non vissute che
rende prezioso il suo contributo.
Perchè è un occhio che testimonia come i semi lasciati nel terreno brullo del nostro inconscio collettivo riescano a riemergere ed a generare piante nuove e
sorprendenti. Una genetica che rielabora Burroughs e Gysin, i Van Der Graaf Generator ed i Jefferson Airplane, Timothy Leary e la beat generation assorbendone soltanto gli echi. Diventando
qualcosa di differente.
Marco Castagnetto